domenica 31 ottobre 2010

Il confine nella mente

Ebbene sì, questa volta il trasloco si può dire concluso. Stanotte ho dormito per la prima volta in casa "nuova" ad Opicina e solo poche cose rimangono da portare da quella "vecchia" giù in città a Trieste. Che fatica ma che soddisfazione aver riempito la nuova libreria del soggiorno, di ben 5 metri di lunghezza per 2,5 di altezza, per buona parte dei miei fumetti. Beh, sì, qualcosa l'ho dovuto concedere ai libri di mia moglie oltre che ai miei. Ma stendermi sul divano per ammirare la collezione di Ken Parker ben ordinata non ha prezzo. Finora questa infatti è l'unica ad essere stata riposta con cura e criterio: per il resto ho solo potuto suddividere le grandi serie fra di loro (Tex da Julia, Magico vento da Martin Mystere, ecc) ma i singoli fumetti o altre raccolte più piccole sono lì, sparse alla rinfusa quasi a chiedermi disperatamente un minimo di attenzione per la loro condizione così precaria. In effetti non vedo l'ora di avere un pò di tempo da dedicare alla sistemazione più accurata dei miei fumetti: mi ci vorrebbe in realtà chissà quanto perché immagino che comincerei a sfogliarli indugiando su disegni e storie che mi ricordano qualcosa o che non ho ancora letto, perdendo così di vista la meta.
Scrivevo di aessermi trasferito a Opicina, una frazione di Trieste che si trova sull'altopiano carsico, pochi chilometri sopra il capoluogo. E' un grande paese, o una piccola cittadina, dove la maggioranza delle persone sono di lingua e cultura slovena. Il confine con la Slovenia è a pochi chilometri, anzi non c'è più per fortuna. Ormai c'è la libera circolazione delle persone fra i due stati e questo fatto, in queste terre, ha significato molto. Per anni infatti, ai tempi della Jugoslavia, la cortina di ferro correva proprio lungo questi boschi, questi campi, queste contrade.
Le guardie di frontiera ti controllavano la propusnica, ovvero il lasciapassare che la gente del luogo possedeva appositamente per andare in Jugoslavia. Una volta là compravi ad un prezzo ridotto alcuni prodotti come la carne, le sigarette o la benzina. Da piccolo e da ragazzo abitavo in provincia di Gorizia e anche lì il confine ti correva accanto.
A Gorizia addirittura l'ospedale civile si trovava a pochi metri dalla frontiera e, ogni volta che ci andavo per degli esami o per delle visite, guardavo dalla finestra con curiosità mista a timore il drappello di guardie col fucile a tracolla che controllava i documenti agli automobilisti di transito nelle due direzioni. Ancora oggi quando attraverso la frontiera che non c'è sento comunque una strana spiacevole sensazione, dura solo pochi istanti ma mi disturba. Il confine è come quelle scheggie di granata che, anche se asportate dalle carni, vengono sentite ancora per anni come se fossero sempre lì presenti. Il confine psicologico non scompare con quello fisico. E allora ti rendi conto di quanto sia stato una violenza quel maledetto confine: quella linea tracciata da politici e militari che ha diviso arbitrariamente delle genti che prima avevano vissuto insieme per secoli. Ti rendi conto di quanto sangue sia stato versato per spostare quella linea di qualche chilometro più ad ovest o più ad est.
La Storia da queste parti ha scritto capitoli tragici ed aperto ferite che ancora stentano a rimarginarsi. Lo stesso quartiere di Opicina in cui adesso vivo fu edificato nel dopoguerra per ospitare i profughi istriani, realizzando una dualità con gli autoctoni sloveni che immagino non sia stata semplice all'inizio. Ora molti anni sono trascorsi e molti contrasti sono stati superati, ma la memoria del passato non va cancellata, anzi va coltivata con lo spirito di ricucire per vivere insieme.
La conoscenza è basilare per la memoria: recentemente uno scrittore triestino di lingua e cultura slovena, Boris Pahor, ha fatto molto parlare di sè, perchè finalmente i suoi romanzi, notissimi all'estero, son stati riconsociuti ed apprezzati per il loro valore anche in Italia. Devo dire la verità ed ammettere la mia ignoranza: pur essendo originario di queste parti, non avevo mai sentito nominare il suo nome, tantomeno letto i suoi libri che raccontano quanto atroce e barbaro sia stato il fascismo nei confronti delle persone di cultura slovena che abitavano a Trieste. Impedire ad una persona di esprimersi nella lingua nella quale pensa è una violenza stupida e svilente. Son rimasto letteralmente a bocca aperta quando, durante un incontro pubblico con Pahor, ho appreso dalla sua voce che lui ha studiato gli scrittori e i poeti della sua lingua madre solo dopo la caduta del fascismo, visto che le scuole di lingua slovena erano state chiuse dal regime. Mi sono immaginato io, ormai adulto, a studiare per la prima volta Dante, Leopardi, Pirandello o Primo Levi. Mi sono vergognato per quello che hanno fatto quelli che parlavano allora la mia lingua e ancor di più per quelli che ancora oggi li difendono.
E' la stessa vergogna che provo quando, ogni 25 aprile, mi reco alla Risiera di San Sabba, l'unico campo di sterminio nazifascista presente sul suolo italiano. Sono ancora visibili le celle in cui venivano rinchiusi i prigionieri prima di essere uccisi direttamente o condotti ad Auschwitz: solo in parte restituiscono l'indicibile orrore che hanno subito i loro sfortunati reclusi, ebrei, sloveni, croati.
E' lo stesso orrore di cui ci parla Vanna Vinci nel suo Aida al confine, mirabile fumetto ambientato a Trieste che esprime tutto il dolore che ha attraversato la città e il Carso durante le due guerre mondiali, viste in un viaggio onirico e mentale di una ragazza di oggi che arriva nella città giuliana come studentessa.








Per tutti questi motivi sono felice di essermi tasferito ad Opicina, anzi ad Opčine, per scacciare dalla mia mente quell'idea spiacevole di confine che mi porto ancora addosso da quand'ero bambino, per arricchire ancora di più la mia identità con una cultura che ho sempre solo sfiorato.

lunedì 25 ottobre 2010

La Stella d'Oro e Clapton

Panino fantasia (senza prosciutto) per me, insalata greca per Lei. Birra rossa grande per me, chiara piccola per Lei, as usual. Il locale è pieno, il vociare degli avventori sale alto, ma noi ci siamo accomodati in un angolino, sopra degli alti sgabelli accanto alla cucina. La posizione è defilata e ci consente una maggiore privacy. Siamo alla Stella d'Oro, una paninoteca di Trieste, anzi di San Giovanni, uno dei rioni della città che ha mantenuto ancora il carattere di piccola comunità. E' divenuto famoso in Italia per aver “ospitato” il manicomio in cui Franco Basaglia portò a compimento la sua rivoluzione. A pochi passi dalla Chiesa, che si affaccia sul piazzale principale del quartiere, si trovano un bar, un'edicola, un negozio di alimentari, un fioraio, un macellaio, una pescheria, un piccolo teatro, una piscina e, appunto, la paninoteca. Tutto quello che serve! La Stella d'Oro ha un carattere molto “popolare”, con tutta l'accezione positiva che questo termine può avere. Non è una di quelle pretenziose paninoteche del centro, che si fanno chiamare pub e che scimmiottano i locali inglesi, inglobando un arredamento e dei soprammobili che sanno di finto. No!, La Stella d'Oro non è così: trasuda da più di 25 anni un sano, sincero e onesto sapore di genuinità, sia nei suoi ottimi panini, sei nei gestori e negli avventori.
Trovi di tutto: dai pensionati e uomini del quartiere che si fanno il calicetto (i primi ad ogni ora del giorno, i secondi a partire dal tardo pomeriggio), famiglie intere, giovani adolescenti, studenti universitari, ex-ragazzi di fuori (ma ancora fanciulli dentro) che si sbafano il loro meritato panino, in un ambiente caldo, familiare, senza fronzoli. Familiare è anche la gestione del locale, ora affidata dai genitori ad Alessandro, un mio omonimo più o meno coetaneo che condivide con me una sanissima passione inglese: non alludo solo alle birre ma a Slowhand: Eric Clapton. Sono più di 15 anni che frequento la paninoteca ed ogni volta Alessandro, ad una certa ora, spegne la radio e infila nello stereo uno dei cd della sua sterminata raccolta. Sempre ottima musica di tutti i generi, dal rock al blues, dal country al jazz fino anche a del buon pop. Ma non so se è una coincidenza, 9 volte su 10, c'è sempre Manolenta ad accompagnare le mie serate. Ormai ce lo siamo confessati a vicenda da tempo, il nostro amore per il chitarrista inglese. E venerdì è successo di nuovo. Avevo appena terminato di addentare l'ultimo morso del mio gustoso panino quando ascolto delle note a me familiari. Mi bastano poche battute, 2 o 3, riconosco la prima traccia dell'ultimo album dell'inglese: Clapton. Mi alzo, mi affaccio alla cucina e vedo il faccione sorridente di Alessandro che mi guarda e dice: “Te lo go messo apposta per ti!”. E giù una grossa risata insieme! Ci scambiamo alcune battute sul disco, siamo felici di esserci di nuovo trovati su un terreno comune, bello come è la musica. Basta poco a volte per instaurare un feeling fra due persone, non è niente di speciale ma allo stesso tempo è qualcosa di grande: in fondo io non so quasi niente di Alessandro e lui di me, abbiamo parlato solo di Clapton e di musica in tutti questi anni, ma il rapporto è bello proprio per questo. Magari qualcuno potrebbe sorridere di ciò, è la cosa giusta da fare infatti, e ci rido sopra anche io.

martedì 19 ottobre 2010

La logica e le passioni

Ho letto Logicomix alcune settimane fa ma l'ho lasciato sul comodino, non l'ho riposto subito in libreria. Questo perché dovevo farlo riposare, dovevo permettere alla mole di stimoli e informazioni che mi aveva dato di sedimentare dentro di me. Ogni tanto la sera, sbirciandone la copertina, ci rimuginavo sopra finché, ieri, l'ho ripreso in mano e ne ho riletto lunghe parti. Devo dire che è il più appassionante fumetto che abbia letto nel corso del 2010. E questo perché offre diverse chiavi di lettura, una più interessante dell'altra. Si può vedere semplicemente come la biografia del celebre matematico, logico e filosofo inglese Bertrand Russel, di cui si scopre la storia fin dall'infanzia con dei lunghi flash-back raccontati dal filosofo stesso durante una conferenza tenuta in un'università americana nel settembre del 1939. Oppure si può leggere come la storia della logica e della matematica e dei suoi protagonisti lungo la fine dell'800 e i primi decenni del 900. Un altro piano di lettura è la storia di una ricerca della verità, quella condotta strenuamente ed appassionatamente da Bertrand Russel stesso: è una delle chiavi che mi ha più colpito. Questo fumetto parla di logica e di logici, ovvero di una disciplina e dei loro adepti che, superficialmente, potrebbero essere considerati come quanto di più cerebrale e astratto possa esistere. In realtà è un fumetto che ha come protagonista la passione, il sentimento più forte che ti infiamma l'animo e che ti può portare tanto alla più spasmodica esaltazione quanto alla più nera frustazione. E' ciò che accade a Russel ed ai matematici che lo circondano. Russel in particolare è mosso da un sacro fuoco, che lo accompagnerà per decenni e che sarà la sua croce e delizia. Il suo scopo è quello di rifondare la matematica su basi solide e logicamente inattaccabili, in modo che tutte le scienze, che a loro volta poggiano i loro fondamenti sulla matematica, sappiano dare risposte certe ed ineludibili ad ogni domanda che viene dal mondo. Se si guarda bene, questo è un fine estremamente nobile: Russel ha una sconfinata fiducia nella capacità della scienza di aiutare l'uomo e di risolvere i suoi problemi. Come? Consentendo il raggiungimento di una conoscenza certa, fornendo sempre risposte corrette a domande ben poste. Ma per fare questo, ogni scienza ha bisogno di un linguaggio di base ineccepibile e preciso, e questo è la logica che, come diceva Aristotele, "... è un
ragionamento nuovo e necessario". Nuovo perché permette la scoperta di qualcosa che prima era ignoto, necessario perché porta a conclusioni inevitabili. Ai suoi tempi la logica era snobbata tanto dai matematici perchè considerata troppo filosofica quanto dai filosofi perché reputata troppo matematica. Russel fu preso da un incantesimo e si immerse totalmente nello studio di come rifondare esattamente la logica: voleva eliminare tutti gli assiomi, tutte le verità assunte come innate e indimostrabili in quanto ovvie, poichè nella nuova logica tutto avrebbe dovuto essere dimostrato "logicamente". Anche questa è un'idea rivoluzionaria: rifiutare le conoscenze date sempre per scontate sottoponendole alla luce della ragione è una delle battaglie di libertà più importanti che un uomo possa fare per se stesso e per tutti i suoi simili. Russel la intraprese di petto e ne rimase scosso nel profondo. I due autori greci del fumetto, un matematico e un informatico, ci mostrano tutti i traumi umani e familiari che Russel visse sulla propria pelle in seguito a questa sua passione, che fu così esaltante ed opprimente nello stesso tempo, da fargli pensare più volte di essere vicino alla foliia. D'altronde il tema della pazzia accompagna Russel lungo tutta la storia: dall'infanzia quando scopre di avere uno zio schizofrenico, fino all'età adulta quando conosce tutti i più celebri filosofi e matematici del tempo alcuni dei quali soffrivano di seri problemi psichici. Dicevo che la logica fu per Russel la sua croce e la sua delizia: uno dei punti di svolta infatti della sua vita fu la scoperta del paradosso che, da allora, fu chiamato appunto il paradosso di Russel. Un paradosso è una proposizione che, mentre afferma una cosa, ne dimostra anche la sua negazione, e viceversa. Se scovato all'interno di una teoria logica o matematica, allora ne mina uno dei presupposti e la teoria perde la sua pretesa di assolutezza. E' quanto fece Russel nei confronti della teoria degli insiemi di Cantor, che aveva preso come base della sua ricerca.
"L'insieme degli insiemi che non contengono se stessi, contiene se stesso? Se sì, allora no. Se no, allora sì."
Ecco le parole che sconvolsero la storia della logica e dei suoi protagonisti nei primi anni del 900 : Russel divenne famoso per aver smontato la più promettente teoria matematica di quegli anni e nulla fu come prima, uno spartiacque venne segnato indelebilmente e molte menti vacillarono sotto questo colpo. Russel stesso ne fu prima esaltato e poi profondamente turbato. La sua scoperta segnò la sua vita per sempre: mai riuscì a raggiungere la completezza di una teoria che fosse autosufficiente logicamente, semplicemente perché non esiste. Due furono gli uomini che abbatterono ogni speranza: un matematico e un filosofo. Il primo, Goedel, che si basò molto sugli studi di Russel, dimostrò incofutabilmente con il suo teorema di incompletezza che non tutte le asserzioni matematiche sono dimostrabili, ovvero che esistono domande senza risposta. Il secondo, Wittgenstein, propose una visione del mondo in cui contano solo i fatti e dove la logica, essendo un linguaggio, può essere solo una rappresentazione, una mappa del mondo reale e, in quanto mappa, non ne costituisce il senso ultimo. La vera vita, secondo il pensatore tedesco, sta proprio in ciò che la logica non coglie e non potrbbe mai cogliere per sua natura: i fatti.
Russel più volte usa la parola fallimento lungo il suo racconto alla platea americana, per descrivere la sua vita di ricerca.  Ma in realtà, ciò che traspare e che costituisce un'ulteriore chiave di lettura del libro, è l'importanza del viaggio e non della sua meta. La vita di Russel è appunto un lungo viaggio, proposto agli studenti americani, per far capire come un uomo cambi e modifichi le proprie convinzioni pur rimanendo fedele sempre ad un ideale, ovvero quello della ricerca. La conclusione cui giunge un uomo che ha voluto cercare un metodo perfetto per risolvere i problemi della logica e della vita umana è che non esiste una via regale per raggiungere la verità: ciascun uomo ha una propria via per raggiungerla. Le orecchie incredule degli uditori della conferenza di Russel ascoltano questi concetti: essi, convinti non interventisti, avevano sfidato il filosofo inglese a convincerli della fondatezza logica dell'eventuale intervento americano della seconda guerra mondiale. Questo è un ulteriore tema del libro: la responsabilità personale e la libertà individuale, il libero arbitrio e il senso di giustizia, il concetto che di fronte al male costituito in europa da due regimi totalitari e demolitori della libertà quali il nazismo e lo stalinismo, anche il pacifista Russel inivta a non assumere irresponsabilmente e a prescindere una posizione come il non interventismo. La realtà è molto più sfaccettata e sfumata di come la vedono i monocordi isolazionisti americani; questo dice Russel e questo invita a fare: a pensare ciascuno con la propia testa e farlo più volte mettendo in dubbio le proprie convinzioni. Ogni risposta sarà valida e ogni individuo avrà la propria, valida e degna di essere considerata alla pari di ogni altra. Russel ammonisce perfino che anche la logica, se fossilizzata in teorie troppo rigide e perfette, può diventare pericolosa. Il viaggio è compiuto.
Gli autori ci hanno condotto fino alla conclusione discutendo animatamente fra di loro e rivolgendosi direttamente al lettore durante degli intermezzi ambientati nello studio di Atene in cui il fumetto viene creato. Sotto questo aspetto siamo di fronte ad un meta-fumetto, un fumetto che si auto-referenzia proprio come gli insiemi degli insiemi del paradosso di Russel. Lo spirito matematico degli autori ci ha messo lo zampino.... Ma è anche molto interessante vedere come attraverso il dialogo socratico tra gli autori e i disegnatori venga sceneggiata la storia di Russel; anche questa è un'altra chiave di lettura: possiamo assistere alla creazione di un fumetto mentre lo stiamo leggendo.
Un'ultima considerazione: il fumetto, come si dice alla fine, è un misto di realtà e invenzione. In ogni caso, durante i miei studi di ingegneria, avrei affrontato con molto più piacere tutta la mole di teoremi di analisi matematica, se avessi saputo che dietro gli  austeri e freddi nomi dei loro ideatori si nascondevano tanto sfrenate passioni.

domenica 10 ottobre 2010

Tanti auguri Tex



I miei genitori mi raccontano che, quand’ero piccolo e avevo sete, comunicavo questo bisogno sbattendo il bicchiere vuoto sul tavolo gridando: “uichiiii!!!”. I miei sorridevano davanti a questa precoce imitazione di un cow boy che chiede whiskey al banco di un saloon. Avevo solo pochi anni ma nel mio immaginario erano ben presenti e assimilate le figure classiche del far west: cow boys e indiani con annessi e connessi. Ciò era sicuramente il risultato dei numerosi film western che vedevo alla TV insieme ai miei: penso di essermeli fatti tutti, e più di una volta, col passare degli anni. Mi riferisco ai classici, alle pellicole di Hollywood degli anni 40, 50 e 60, ai film, per esempio, di John Ford interpretati da John Wayne. Parallelamente al cinema, il mito del West crebbe dentro di me anche grazie alla lettura dei “giornalini” di Tex, prima solo delle figure, poi anche dei testi. E’ per questo che leggendo oggi Tex mi viene sempre in mente il John Wayne di Sentieri selvaggi: le due figure per me sono sovrapposte e sono l’emblema del West classico, quello fatto di cavalcate in praterie sterminate, di lunghe carovane di pionieri, di assalti a Fort Apache, di scontri fra indiani e giacche blu, di duelli a mezzogiorno sulla main street, di scazzottate nei saloon.


Il mito della Frontiera oggi festeggia un anniversario: Tex compie 600 numeri dell’albo mensile, ovvero 50 anni, anche se in realtà sono più di 60 gli anni lungo i quali generazioni di padri e figli rinnovano il mito del west sulle pagine di Tex, prima in formato striscia, poi per l’appunto nell’odierno “formato Bonelli”. Il personaggio creato da Gian Luigi Bonelli e disegnato da Galep ha cambiato nel tempo autori delle storie e disegnatori, ha dato vita a numeri speciali come i Maxi Tex e i Texoni dove artisti internazionali hanno dato la loro personale interpretazione del personaggio bonelliano. Non ha mai perso però le sue caratteristiche originali, quelle che lo definiscono come il più classico degli eroi del western classico: alto senso della Giustizia grazie al quale corre in difesa del più debole prevaricato dal prepotente, modi bruschi e spicci (ma molto abili e coraggiosi) per colpire il cattivo di turno, assicurarlo alla giustizia pubblica o, nei casi in cui ciò non è possibile per ragioni contingenti (molto frequenti), emissione diretta della sentenza e applicazione della pena (spesso mortale...). In altre parole Tex incarna il Bene contro il Male. Molti storcono il naso di fronte a una semplificazione così manichea della realtà: fumetti western più "maturi" come Ken Parker o Magico Vento in effetti hanno saputo affrontare il mito del west in modo più sfaccettato e realistico. Ma purtroppo hanno chiuso i battenti, o si accingono a farlo. Come osserva Marco nel suo blog, il più "inattuale" degli eroi western a fumetti invece sopravvive. Io userei l'aggettivo archetipico, anziché inattuale, perché il suo west corrisponde ad un'immagine ben precisa e stratificata nel nostro immaginario collettivo, ovvero a quella del west classico di John Ford. Senza "Sentieri selvaggi" non ci sarebbero stati né "Corvo rosso non avrai il mio scalpo" né "Piccolo grande uomo" né "Soldato blu", così come senza Tex non ci sarebbero stati né Ken Parker né Magico Vento.
Quindi, lunga vita a Tex!

martedì 5 ottobre 2010

Le rimozioni della Storia


Ne avevo anticipato l'acquisto e la lettura qui. I Quaderni ucraini  di Igort restituiscono qualcosa che i libri di storia non possono comunicare. I singoli individui, protagonisti in carne ed ossa della Storia, non hanno quasi mai l'onore di comparire sui libri che spiegano i fatti del passato. La scena viene loro rubata da capi di stato, condottieri, generali, rivoluzionari: il popolo raramente assume un ruolo da protagonista e, se lo fa, viene sempre rappresentato come una massa indistinta di uomini e donne, che subiscono le scelte di pochi.
Igort dà loro un volto e un nome: Serafima, Nikolay e Maria sono solo tre persone, ma sono vere e vive. Raccontano del loro triste passato e dell'incerto presente. Lo scenario è l'Ucraina del secolo scorso e di oggi: teatro a partire dagli anni 30 di una politica violenta di assoggettamento da parte del potere centrale sovietico. Colui che tutto fece iniziare è uno di quei capi di stato che più tristemente si incontra nei libri di storia contemporanea: Iosif Stalin. Chi ancora, nonostante tutte le informazioni di cui ormai siamo in possesso, dubitasse se giudicarlo un grande statista o un atroce criminale, può trovare in questo reportage a fumetti alcune testimonianze.... 

Un'immagine del libro
Non vengono espressi dei giudizi, ma raccontate storie di persone vittime di una politica crudele: l'holodomor, ovvero la carestia indotta che sterminò milioni di persone. I disegni di Igort mettono in risalto ancor di più l'orrore di quei periodi: lo vedi dipinto sui volti scavati dei protagonisti con il risultato di farli sembrare vivi sulla pagina.
Le storie arrivano fino ai nostri giorni. Nikolay è nato nel 1939: lui non ha vissuto il periodo della carestia. Ha lavorato sodo nei kolkhoz fin da ragazzo e poi ha studiato ingegneria: descrive una società, quella post-staliniana, in cui, chi lavorava, viveva dignitosamente, una società dove ci si sentiva delle persone e la solidarietà era di casa. Oggi, con il capitalismo, tutti pensano a se stessi, con il magro salario non arrivi a fine mese e regna l'incertezza per il domani.
L'epilogo del libro non è disegnato, è una notizia. Siamo nel 2008: l'Ucraina ha chiesto che la carestia degli anni 30 venga riconosciuta dall'Onu come genocidio. La Russia annuncia il suo diritto di veto; l'Ucraina ritira la mozione. Pochi stati, fra cui anche l'Italia, riconoscono l'holodomor come delitto contro l'umanità. L'ultima pagina raffigura Stalin e la didascalia di Igort annuncia che in aprile di quest'anno Mosca è stata tappezzata di sue gigantografie: la data è il primo del mese e purtroppo non è uno scherzo. La Storia non insegna niente: basta rimuovere quello che non ti piace e anche un criminale diventa un eroe. Igort ha dato il suo piccolo contributo contro questa rimozione.

L'edizione francese del libro

venerdì 1 ottobre 2010

Quant'è difficile fare la mangaka in un mondo di maschi....

Sul quotidiano La Repubblica del 29 settembre compare una bella intervista a Riyoko Ikeda, l'autrice del manga Le Rose di Versailles, da cui è stato tratto il celeberrimo anime noto in Italia come Lady Oscar.
Riyoko si trova nel nostro paese in quanto è ospite d'onore della rassegna internazionale di fumetto Romics che si sta svolgendo a Roma in questi giorni. Nell'intervista ha dichiarato che all'epoca (il manga è del 1972) venne pagata un terzo dei suoi colleghi uomini, in quanto si supponeva che fosse l'uomo a dover mantenere la donna e non viceversa. Riyoko ha tenuto duro e dalla sua testa è uscito un fumetto che ha incantato generazioni di lettori, non ultimo io.
Devo dire la verità: ai tempi della sua uscita sugli schermi italiani la snobbai altamente, considerandola roba da femminucce. Stava parlando la mia parte maschilista....
Mi son ricreduto molto tardi, appena due anni fa quando, su sollecitazione di mia moglie, grande fan di Oscar, ho scaricato la serie e me la son vista tutta d'un fiato. Splendida! Il passo successivo è stato l'acquisto del manga appena riedito in Italia dai tipi della d/visual.
Ci sono tanti aspetti che mi hanno colpito della storia, ma forse il principale lo dice la stessa Ryoko nell'intervista che in parte trovate online qui:
"Io credo che Lady Oscar rappresenti la libertà: quella di essere una donna dall'animo più maschile, oppure un uomo dall'animo più femminile".
C'è molta verità in questa affermazione, soprattutto per noi maschietti: il riconoscimento dell'esistenza della nostra parte psicologica femminile e la sua integrazione sono spesso un tabù. Ma soprattutto sono la fonte del maschilismo più bieco e retrivo che tanta ingiustizia produce nei confronti delle donne.
Ma guarda quante cose ci sono dentro un banale cartone animato....
 
Riyoko Ikeda ospite di una performance cosplay

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