venerdì 24 maggio 2013

Waiting for the Boss (VII) - Nebraska

L'importanza di Nebraska è senza dubbio più letteraria che musicale: segna infatti quella maturazione nella scrittura dei testi che aveva avuto timida origine in The river, abbandonando temi e situazioni tra l'epico e il romantico, per andarsi a scontrare con i drammi privi di lieto fine che troppo spesso la vita riserva. In termini strettamente musicali, è già stato osservato che in realtà i brani del disco non siano veri e propri pezzi folk, ma canzoni rock ridotte all'osso. Se si vuole, e Springsteen lo voleva fortemente, che l'ascoltatore si concentri sulla tragedia di Starkweather o partecipi al tormento di Joe Roberts non si possono arricchire queste storie con riffs da hit parade e grandi assoli di sax o chitarra: il loro dramma va percepito con attenzione e, nel caso, con angoscia. Nebraska rimane in ogni caso il più grande atto di sincerità e di rispetto del pubblico che un artista popolare abbia mai avuto il coraggio di fare.
Luca Raimondo, Soundcheck: Nebraska, in "Follow That Dream", giugno 1991 

giovedì 23 maggio 2013

Waiting for the Boss (VI) - The river

The river, come musica e come parole, fu il risultato sia di una reazione alle idee esplorate in Darkness on the edge of town sia di un loro approfondimento. La musica country era per me sempre più importante. Una notte, nella mia camera d'albergo a New York, cominciai a cantare My bucket's got a hole in it di Hank Williams. Quella notte rientrai in macchina nel New Jersey e rimasi alzato nella mia camera a scrivere The river. Usai una voce narrativa folk - quella di un tale in un bar che racconta la propria storia a un estraneo seduto nello sgabello accanto. Quella canzone cristallizzò i miei interessi e inaugurò lo stile di scrittura che avrei sviluppato con maggiore profondità e dettagli in Nebraska e The ghost of Tom Joad.
Bruce Springsteen 

mercoledì 22 maggio 2013

La pipa


Ferro affrettò il passo. Un piede dietro l'altro, sguardo basso sul marciapiede, viso nascosto dal bavero rialzato del cappotto. Entrò nel parco da un ingresso secondario, sfiorando una mamma che teneva per mano la sua bambina. Il rumore della ghiaia smossa dai suoi passi gli dette fastidio, si sentì gli occhi di tutti puntati su di lui. Ma si rese subito conto che tutti se ne infischiavano beatamente del suo ingresso. Quel sole inatteso di novembre aveva portato molta gente nel parco e, per qualche ora, tutti si dimenticarono della guerra, della fame e dei tedeschi. Ma Ferro no.
Si diresse al posto stabilito, una piccola radura circondata da siepi e alberi, adocchiò la panchina sul lato ma la vide occupata. Sputò a terra contrariato. Una giovane coppia di adolescenti si scambiava effusioni.
“Che cazzo hanno da baciarsi” si disse “Lui avrebbe già l'età per essere dei nostri. E lei farebbe meglio a starsene a casa, con tutti quei porci fascisti che girano”
Si domandava come farli andar via quando notò l'Attrice avvicinarsi ai due piccioncini. La vide chinarsi verso di loro e scambiare qualche parola. Poco dopo i due ragazzi si alzarono con uno sguardo atterrito e corsero via. Ferro si avvicinò e si sedette sulla panchina ormai liberata a fianco dell'Attrice.
“Attrice, che cazzo hai detto ai due mocciosi per farli andar via così?”
Le labbra della donna, truccate di rosso come sempre, si mossero in quel modo che turbava Ferro.
“Ho detto di essere una della milizia e che, se non sloggiavano, li avrei portati in commissariato”
L'espressione divertita dell'Attrice calmò Ferro. Ma l'improvvisa serenità durò solo qualche istante.
“Perché cazzo Spartaco ha fissato l'appuntamento qui? È pericoloso”
“Tutt'altro” ribatté la donna accavallando le gambe sotto il cappotto verde “spesso i luoghi più frequentati sono quelli più sicuri. Nessuno farà caso a noi”
“E dove cazzo è?” disse ancora Ferro “è in ritardo”
Si alzò, si accese una sigaretta e cominciò a camminare dalla panchina verso il monumento a pochi metri da lui. Il busto in bronzo di un insignificante poeta locale lo stava guardando con aria di sfida. Ferro sostenne lo sguardo, sputò a terra e si voltò.
“Stai tranquillo che arriverà a momenti” rispose l'Attrice mentre si aggiustava una ciocca di capelli rossi sulla fronte. A Ferro piaceva stare con l'Attrice. Certo, avrebbe preferito una stanza di un appartamento, con nessun altro fra i piedi. Ma non erano quelli i tempi per pensare a certe cose. Ferro era concentrato sul prossimo obiettivo. Un obiettivo alla volta, un passo dopo l'altro, senza pensare troppo al futuro. Questa era la politica di sopravvivenza del gappista Ferro. E per sopravvivere non c'era spazio né per il sesso, né tanto meno per l'amore. Quindi riguadagnò la panchina guardando l'Attrice solo come un compagno di battaglia, né uomo né donna. Quelle labbra rosse, però, e il gesto con cui si sistemava i capelli vanificavano ogni sforzo.
“Eccolo” la voce dell'Attrice distrasse Ferro da quei pensieri. Un uomo stretto in una giacca di una misura più grande avanzava verso di loro zoppicando. Spartaco si sedette fra i due compagni portando con sé il suo consueto odore di tabacco di pipa.
Ferro si domandò per l'ennesima volta come diavolo facesse a trovare sempre quel prezioso tabacco. Forse al mercato nero? Un regalo di qualche vecchio parente? Ma si fidava ancora dei parenti? No, impossibile. Doveva averne una riserva nascosta da qualche parte, che non voleva condividere coi compagni. Ma non c'era nessuno che fumava la pipa fra loro. Quindi nessun problema.
“Come mai zoppichi? Cosa ti è successo?” Ferro constatò che la domanda dell'Attrice era molto più pertinente e importante di tutti quegli stupidi pensieri che affollavano la sua mente.
“Sono appena scivolato su un marciapiede qua vicino” rispose indolente Spartaco.
“Cazzo, Spartaco. Hai fatto centinaia di capriole e salti in tutte le nostre azioni e non ti è mai successo nulla. E ora mi scivoli sul marciapiede?” Ferro si alzò stizzito e gettò la sigaretta verso il monumento del poeta.
“Stai calmo. Non è niente. Fra un po' mi passa” disse Spartaco prendendo la pipa dalla tasca della giacca.
Quel gesto lento e le parole tranquille di Spartaco innervosirono ancor di più il compagno.
“Calmo un cazzo! Già trovarsi qui è pericoloso. In più tu mi arrivi zoppo. E se ci beccano? Come fai a scappare? Ti portiamo noi sulle spalle? Dovevi tornartene al tuo rifugio. E avremmo fissato un altro appuntamento.” Ferro gesticolava e camminava a larghi passi fra la panchina e il busto del poeta. Si fermò per cercare un'altra sigaretta nella tasca, ma non la trovò. Diede un calcio alla ghiaia sotto i suoi piedi e sputò per terra.
“Se continui ad agitarti così, attirerai l'attenzione” disse placido Spartaco “Quindi calmati, e torna a sederti”
Ferro infilò le mani nelle tasche del cappotto e si lasciò cadere, imbronciato, sulla panchina. Dalla sua visuale non poteva notare il piccolo livido che Spartaco aveva sulla guancia destra. L'Attrice, seduta dall'altra parte, vide un raggio di sole illuminare quel segno scuro sul volto, ma non disse nulla.
“Chi dobbiamo ammazzare questa volta?” fu la domanda della donna.
Spartaco diede ancora qualche boccata alla pipa prima di rispondere. E la risposta non piacque a nessuno.
“Sei pazzo? Ma è sempre circondato da decine di soldati.” gridò Ferro voltandosi verso il compagno che ignorò tutte le successive parole che vomitarono dalla bocca di Ferro. Anche l'Attrice si era stupita della risposta di Spartaco ma aveva mantenuto il suo sguardo concentrato su quel livido. C'era qualcosa che non la convinceva. Non era proprio un livido. Era una ferita, un taglio. Un piccolo taglio provocato da una lama qualche giorno prima. Si stava già cicatrizzando, infatti, ma la piccola tumefazione circostante rivelava che non era passato tanto tempo. Fece un paio di conti. Non vedevano Spartaco da una settimana. E sette giorni fa Spartaco non zoppicava e il suo volto era liscio e privo di lacerazioni.
Il fumo usciva dalla pipa ad intervalli regolari. L'Attrice spostò l'attenzione sulla mano che stringeva la pipa. L'unghia del pollice mancava. Una crosta scura di sangue rappreso misto a carne indurita la sostituiva. Spartaco si voltò verso l'Attrice. Gli sguardi si incrociarono. Ferro sproloquiava camminando avanti e indietro fra il busto e la panchina. Spartaco chiuse gli occhi e rigirò la testa a guardare un punto indistinto davanti a sé. La pipa dentro e fuori dalla sua bocca. Con regolarità.
Poi si fermò. Abbassò il busto in avanti e diede piccoli colpi sul terreno per far uscire quel poco di tabacco che era rimasto nella pipa. Due spari risuonarono a spezzare ogni altro rumore. Spartaco vide cadere davanti a sé il corpo di Ferro. Il volto del compagno ad un metro dal proprio. Gli occhi spalancati e increduli a cercare una risposta in quelli di Spartaco. Questi ruotò la testa a destra e vide l'Attrice alzarsi e correre verso un cespuglio a fianco della panchina. Solo due passi e altri due spari. Guardò l'Attrice cadere faccia a terra, un rivolo di sangue uscì dall'orecchio a bagnare la ghiaia.
Spartaco raddrizzò il busto, si alzò dalla panchina e fece un passo in direzione del monumento al poeta. Un ufficiale tedesco stava in piedi davanti a lui, chiuso in un pastrano lucido. I raggi del sole si riflettevano sulle lenti dei piccoli occhiali. Nella mano destra una pistola, nell'altra una pipa. Entrambe fumanti.

martedì 21 maggio 2013

Waiting for the Boss (V) - Darkness on the edge of town

I protagonisti dei film di John Ford e Sergio Leone sono ancora delle figure di statura e dimensioni eroiche, anche se si tratta di eroi tragici e divisi, come il protagonista di The Searchers (Sentieri selvaggi), o di eroi "manieristi", ovvero che hanno conservato solo la maniera, le forme, non il sistema di valori ideologici e morali, degli eroi western classici, come i protagonisti dei film di Sergio Leone. Ora, il passaggio progressivo e graduale da una visione mitica a una visione storica, realistica e critica della realtà americana, attuato nel genere western, caratterizza in maniera particolare anche l'insieme dell'opera springsteeniana e l'album Darkness on the edge of town costituisce senza dubbio una tappa fondamentale di questo processo. In esso, Springsteen prende coscienza del fatto che i miti dell'American Dream, della Strada e del Viaggio verso la Terra Promessa, celebrati in Born to run (ma anche in molti film di John Ford) non corrispondono alla realtà americana, che invece sembra negarli continuamente. Se, pertanto, l'immagine centrale di Born to run è quella di un'energia vitale inesauribile, che si esprime in una corsa che pare non conoscere ostacoli, l'immagine centrale di Darkness on the edge of town è quella della lotta quotidiana contro una realtà dominata da forze che sembrano opporsi costantemente alla volontà degli individui di realizzare i propri sogni e i propri ideali. Ma in questa lotta i personaggi delle canzoni di quest'album assumono quelle stesse dimensioni eroiche del protagonista del film di John Ford e di quelli di Sergio Leone. A ciò si deve lo stile particolarmente solenne di molte di queste canzoni e la visione contemporaneamente realistica ed eroica della realtà americana da cui Darkness on the edge of town appare caratterizzato, visione che nasce da una presa di coscienza della non corrispondenza tra mito e realtà.
Antonella D'Amore, Mia città di rovine,  Manifestolibri, 2002 

domenica 19 maggio 2013

Waiting for the Boss (IV) - Born to run

Un disco che parla della ricerca di due ragazzi, non sempre insieme e non sempre innamorati, ma comunque vicini. Che non sanno bene cosa cerchino, ma si dannano l'anima per trovarlo. Nelle fughe romantiche verso la Terra Promessa (Thunder Road, Born to run), nella staticità ora disperata ora visionaria delle giungle urbane (Jungleland, Tenth Avenue freeze-out, Night, Meeting across the river), nella disillusione dell promesse spezzate nelle strade secondarie (Backstreets) o che sai che presto si spezzeranno (She's the one). Attraverso gli occhi di Terry, Magic Rat, Mary, Bad Scooter, Wendy, Eddie, Cherry, è già possibile vedere cosa accadrà dopo. Come in quei film dove, nel momento stesso in cui ridi, ti innamori e ti commuovi, senti un brivido lungo la spina dorsale. Come una premonizione. Born to run è l'album che ti fa credere con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente nel rock 'n' roll.
Massimo Cotto, Born to run,  in "Velvet Gallery", giugno 1990

sabato 18 maggio 2013

Mille volte Internazionale


L'ultima rubrica dell'ultima pagina di Internazionale si chiama Le Regole. Questa settimana è dedicata al Numero mille e la prima regola recita:
"Ricordi ancora quando hai comprato il primo numero di Internazionale? Sei vecchio"
Sono vecchio. Ricordo perfettamente che la mattina di sabato 6 novembre 1993 acquistai nell'edicola della stazione di Trieste il primo numero di questa nuova rivista settimanale. Ne avevo visto la pubblicità non ricordo più bene dove e mi aveva incuriosito la novità che ne costituiva la natura. Internazionale si proponeva di presentare i migliori articoli della stampa mondiale, tradotti in modo fedele da ottimi traduttori.
Perché? Lo dichiarava esplicitamente il primo editoriale, che oggi si può rileggere acquistando il numero 1000 della rivista a cui è allegata la ristampa del numero 1:
"..quel bisogno di provare a capire la complessità del mondo, quella voglia di accedere all'informazione senza filtri e di formarsi opinioni proprie senza mediazioni... Un articolo letto su Internazionale non farà capire il mondo, ma aiuterà a capire come il mondo è complicato, vario e ricco. E come i destini di tutti noi siano incrociati e legati."
Oggi ho potuto rileggere quegli articoli che lessi quel sabato di quasi venti anni fa in treno e che mi convinsero, poche settimane dopo, ad abbonarmi alla rivista. Lo considero un regalo che, da allora, faccio annualmente a me stesso, alla mia curiosità, al mio desiderio di capire e conoscere.
In venti anni Internazionale si è arricchito di rubriche (anche di fumetti), ha allargato il numero di collaboratori, organizza ogni anno a Ferrara un Festival sul giornalismo (ma non solo), è diventato a colori e la carta è migliorata. Ma è sempre rimasto fedele alla sua dichiarazione di intenti. Realizzandoli. Almeno per quanto mi riguarda.

giovedì 16 maggio 2013

Waiting for the Boss (III) - The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle

"The Wild è l'album soul di Bruce Springsteen, una novella West Side Story popolata di neri e chicani. Se in Greetings Springsteen era il provinciale giunto in visita nella metropoli e al colmo di una spaesata meraviglia, qui si divide fra i luoghi d'origine e la città che lo ha adottato e che in Born to Run prenderà il centro della ribalta."
Eddy Cilìa, Nebraska, in "Velvet Gallery", giugno 1990 

martedì 14 maggio 2013

Waiting for the Boss (II) - Greetings from Asbury Park, NJ

"Nel mio primo album ho fatto venir fuori un numero incredibile di cose tutta in una volta. Un milione di cose n ogni canzone. Le avevo scritte in mezz'ora, quindici minuti. Non so da dove venissero. Scrivevo come in preda ad una febbre. Non avevo soldi, nessun posto dove andare, niente da fare. Era inverno, faceva freddo e scrivevo. Mi sentivo in colpa se non lo facevo. Non creai più nulla in quello stile. Una volta che uscì il disco, mi sentii definire il nuovo Dylan e così evitai di ripetermi."
Bruce Springsteen

"Utilizzando un linguaggio enfatico e visionario, una sterminata teoria di versi chilometrici e un logoro dizionario di sinonimi. Springsteen è riuscito a fare suoi tutti i miti della cultura giovanile del suo tempo, il rock 'n' roll e il cinema: ed ecco che i ragazzi del boarwalk di Asbury Park, gli spacciatori e le puttane di Manhattan, vengono innalzati al rango di giovani ribelli, ecco che il desolante panorama della periferia urbana del New Jersey diventa un nuovo fronte del porto, un luogo non più squallido ma estenuantemente romantico."
Leonardo Colombati, Come un killer sotto il sole, Sironi Editore, 2007

domenica 12 maggio 2013

Waiting for the Boss (I)

"Springsteen non è un qualsiasi bravo cantautore rock. È una specie di bandiera, un monumento indomabile, un inno a tutto quello che il rock può essere. Per capirlo bisogna avere visto almeno una volta un suo concerto. Ha inciso dischi straordinari, ma di sicuro il vero Springsteen è nelle esibizioni dal vivo. Si usava dire che i Rolling Stones siano stati per antonomasia la più grande rock 'n' roll band di tutti i tempi. Vero, forse, ma solo nel fervore degli anni Sessanta e in qualche scampolo dei Settanta. Dopo, la più grande, classica rock 'n' roll band della storia è stata Bruce Springsteen & The E Street Band. Chi lo ama ha la certezza di andare a celebrare insieme a lui l'unico, meraviglioso e liberatorio rito profano che la nostra cultura ci abbia lasciato."

Gino Castaldo, Provaci ancora Bruce, in "La Repubblica", 1 aprile 1999

martedì 7 maggio 2013

Il figlio del softwarista


Infermiere e dottori entravano e uscivano continuamente dalla porta sul reparto maternità alla sua destra. Andrea, sprofondato su una scomoda sedia di plastica, guardava fisso davanti a sé gli ascensori che si aprivano e chiudevano, annunciati da una fastidiosa voce elettronica. Una mosca volò incrociando il suo sguardo perso. Per un momento si distrasse e ne seguì la traiettoria, fino a che l'insetto si posò sulla sedia vuota accanto a lui. Il giornale strappato che teneva in mano atterrò con un tonfo secco sull'indifesa bestiolina. Le persone attorno a lui fecero silenzio e lo guardarono severe. Indifferente, si alzò, raccolse da terra il giornale e l' immobile mosca e li gettò con noncuranza nel cestino colmo di rifiuti. Pazienti, visitatori e personale ospedaliero ripresero a parlare e a muoversi. Andrea fece scivolare le mani sulle guance tergendosi il sudore. Si risedette e, a testa china con le braccia appoggiate alle ginocchia, prese a fissare un punto dello sporco pavimento sotto di sé.
“Oh, eccoti qua! Ciao! Allora, come va?” una voce familiare e una pacca sulla spalla distolsero Andrea dai suoi pensieri. Alzò lo sguardo fino ad intercettare la faccia rubiconda di suo fratello. Il sorriso di Michele gli diede un po' di calore. Si alzò e lo abbracciò.
“Ma sei tutto sudato! Con il freddo che fa fuori? Da quando sei qua? Come sta Antonella?” disse Michele allontanando da sé Andrea per guardarlo bene negli occhi. Nei secondi che precedettero la risposta, il sorriso del fratello si tramutò in un'espressione preoccupata. Andrea si strinse le guance fra le mani, lisciandosi la barba, vecchia di un paio di giorni.
“Non so come sta. Sono arrivato mezz'ora fa dall'ufficio, ma nessuno qui mi dice niente” furono le parole che Andrea pronunciò meccanicamente. Abbassò lo sguardo a terra mentre Michele ribatté:
“Come non sai niente? E Antonella come ci è arrivata in ospedale?” Michele non si rese conto di aver alzato il tono della voce.
Andrea si strinse ancora la testa fra le mani mentre, con un filo di voce, rispose al fratello.
“Non lo so come ci sia arrivata. Mi ha telefonato uno dell'ospedale dicendo che era qui, al reparto maternità. E che stava per partorire...”.
Michele corrugò la fronte e soffermò lo sguardo sulle spalle cadenti di Andrea, sui pochi capelli spettinati e sul lembo sinistro della camicia fuori dai pantaloni. Lo invecchiavano di almeno dieci anni.
“Ma che cazzo fai? Son tre giorni che Antonella è ferma a letto e tu te ne stai in ufficio fino a mezzanotte?” gridò prendendo il fratello per le spalle.
Andrea si giustificò:
“Avevo un lavoro da finire. Dovevo consegnare una versione software entro stasera. Era importante. E poi domani è il primo novembre, l'ufficio è chiuso. Non potevo..” Michele non lo fece finire. Colpì Andrea con uno schiaffo. Il fratello cadde a terra e, di nuovo, tutta la gente attorno ammutolì. Andrea si rialzò, si strinse le guance fra le mani e tornò a sedere a capo chino. Lo stupore dei presenti durò solo alcuni secondi. Ritornò il consueto vociare e l'andirivieni costante di tutte le sale d'attesa. Michele raggiunse a lunghe falcate la porta del reparto e sparì nel buio corridoio che la seguiva.
Andrea non se ne accorse nemmeno. Quando sollevò la testa in cerca del fratello, vide due dottori che bevevano un caffè. Un'irresistibile voglia lo fece alzare fino alla macchina automatica posta alla sinistra della grande sala. La raggiunse e frugò nelle tasche in cerca di qualche moneta. Un fazzoletto sporco gli cadde a terra insieme al suo tesserino magnetico aziendale. Raccolse gli oggetti e si soffermò a guardare la foto sul badge, ormai logoro. Lo ritraeva giovane, sorridente e con una folta chioma bionda. Ributtò tutto in tasca, spinse la moneta nella fessura e attese il suo caffè. Cerando di ricordare se fosse il nono o il decimo della giornata, si strinse le guance fra le mani che continuavano a sudare. Il caffè era uno schifo, ma Andrea ormai non ci faceva più caso. Da un paio d'anni la caffeina aveva sostituito la nicotina come eccitante nelle lunghe serate passate in ufficio davanti al pc. I panini di plastica erogati dai distributori automatici lenivano i morsi della fame che Andrea pativa fra una compilazione e l'altra del software. L'alito non ne aveva tratto giovamento e, tanto meno, il girovita.
Schiacciò il bicchiere per buttarlo nel cestino e alcune gocce di caffè, intrise di fondi, schizzarono sulla manica della camicia. Andrea non ci badò e si diresse alla sua sedia. Lungo il percorso si accorse che la porta del reparto davanti a sé si spalancò sul volto di Michele. Gli occhi del fratello non tradirono nessuna emozione quando dalla sua bocca uscirono quattro parole.
“È nato il bambino.” Poi, infilò la porta dell'ascensore alla sua destra e sparì.
Andrea si strinse le guance fra le mani. Gli sembrò di avere dei pesi legati alle caviglie quando spostò un piede davanti all'altro in direzione del reparto. Varcò la soglia e chiese ad un'infermiera notizie di sua moglie.
Un braccio teso indicò una direzione in fondo al corridoio. Andrea raggiunse il punto indicato trascinando i piedi. Si girò a destra e vide una stanza separata da un vetro. Al di là un'infermiera di spalle sembrava tenere fra le braccia qualcosa. Andrea si chiuse il volto fra le mani. Si avvicinò e bussò sul vetro.
L'infermiera si girò e il suo sorriso si spense in un attimo. Andrea la guardò, si premette le guance fra le mani sudate e abbassò lo sguardo sul piccolo panno bianco che la donna teneva tra le mani. Da uno spiraglio spuntava una piccola testa con una folta chioma corvina. Il bimbo era nero.
Andrea si portò le mani sulla faccia, questa volta a coprire gli occhi. Si voltò e se ne andò.

domenica 5 maggio 2013

Kiki o del diventare adulti


Della serie: meno siamo, meglio stiamo. Nella piccola sala del cinema eravamo solo in undici, ma peggio per quelli che non son entrati ad assistere ad uno spettacolo delizioso: Kiki - Consegne a domicilio, il lungometraggio che il maestro Hayao Miyazaki realizzò nel 1989, ma che esce nelle sale italiane solo ora, distribuito dalla Lucky Red.
La streghetta Kiki si reca in una città (che ricorda molto quelle del Nord Europa affacciate sul mare) per compiere il suo anno di apprendistato. Deve trovare una casa in cui vivere e metter alla prova il proprio talento. E' una tappa prevista nella sua crescita, come strega e come donna. Sperimenterà le prime difficoltà e le prime vere amicizie. E capirà che il sangue del mago conta come quello del pittore e come quello del fornaio. Una storia deliziosa su cosa significa diventare grandi, sulla valorizzazione dei propri talenti, sull'acquisizione della maturità e dell'autonomia. Un film consigliato a tutti gli adulti che pensano di avere ormai la vita impostata lungo una strada già segnata, priva di sogni e di legittime ambizioni.
Quando si sono accese le luci, i volti degli altri dieci spettatori erano sereni e in pace. Chissà cosa avranno pensato del mio?

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